FAMILISMO AMORALE

Sono sincero, questo concetto sociologico l’ho scoperto leggendo il libro da poco uscito in Italia di Raghuram Rajan, “Il terzo pilastro – La comunità dimenticata da Stato e mercati”. Ne riporto i passaggi centrali e ne consiglio la lettura.Il concetto di ‘familismo amorale’ fu introdotto a metà degli anni Cinquanta del secolo scorso dall’antropologo sociale Edward Banfield nella sua opera dal titolo “Le basi morali di una società arretrata,” in cui analizzava le relazioni sociali e l’etica che guidavano i cittadini di un villaggio povero dell’Italia meridionale, che identificò con il nome fittizio di Montegrano. Il villaggio era rimasto sottosviluppato pur trovandosi in un’Italia che all’epoca stava vivendo una miracolosa trasformazione economica: in parte, sostiene Banfield, per “l’incapacità degli abitanti di agire insieme per il loro bene comune”.
Scrive Rajan: “Il problema di Montegrano, secondo Banfield, era l’estrema sfiducia fra gli abitanti, il loro timore di perdere la posizione sociale che occupavano in rapporto agli altri qualora avessero aiutato qualcuno a migliorare le sue condizioni di vita, la loro invidia corrosiva nei confronti delle persone che riuscivano ad avere successo.

Dato tale atteggiamento, chiunque compisse un gesto a favore dell’intera popolazione sentiva di sostenerne interamente il costo, probabilmente avrebbe ricevuto solo una piccola parte dei benefici collettivi e si sarebbe sentito danneggiato da quelli ricevuti da altri. Come aveva spiegato un insegnante, non solo lo spirito collettivo era limitato, ma molti volevano attivamente impedire agli altri di prosperare. Questa apatia collettiva spiega perché non venissero intrapresi sforzi volontari a supporto dei servizi pubblici”.Atteggiamenti di questo tipo sono frutto di ragioni diverse, sostiene Rajan. Quando le opportunità economiche sono molto limitate, l’iniziativa economica può essere considerata a somma zero: il tuo guadagno ha luogo a spese del mio. Il problema si aggrava quando le famiglie rischiano di scendere ad un livello inferiore della piramide sociale: da quello di chi è appena sufficiente, ma ancora rispettabile, a quello di chi è ‘miserabile’ in quanto la sua sussistenza dipende dagli altri.Un esempio comune di ciò che Banfield chiama ‘familismo amorale’ è riscontrabile in molti Paesi in via di sviluppo, continua Rajan, dove le persone tengono perfettamente pulita la propria casa ma gettano per strada senza alcun riguardo la spazzatura raccolta all’interno. L’effetto controproducente della presenza di spazi pubblici sporchi e privi di igiene intorno a case pulite può essere spiegato solo da un’estrema apatia collettiva, una caratteristica essenziale delle comunità disfunzionali (v. pag. 38,40 e 41).

Queste Comunità che io definirei chiuse o “disfunzionali”, come sostiene Rajan, si riscontrano soprattutto dove prevale la cultura e la convinzione che debbano essere altri ad occuparsi dei beni comuni e questi altri, nella nostra realtà lo Stato, la Regione o il Comune, rimangono apatici rispetto ai propri impegni, contribuendo così a confermare nell’opinione pubblica la convinzione di pensare a sé stessi e non al bene comune. Neanche episodi evidenti che danneggiano l’immagine di tutti scalfiscono questa convinzione. Mentre nelle Comunità che funzionano, che cioè creano benessere per tutti, i membri delle stesse si preoccupano di costruire insieme il proprio futuro, sapendo che nessun altro ci può pensare. Una Comunità che funziona aiuta i giovani a crescere, supporta i membri deboli, anziani o sfortunati, promuove benessere e produce un maggior senso di orgoglio e responsabilità.Devo dire che molti di questi aspetti di familismo amorale li ritrovo nella Comunità isolana. 

C’è sull’isola una cultura diffusa e pervasiva che ci impedisce di essere una Comunità che funziona.Come si esce da questo atteggiamento negativo? Prima di tutto con il prendere consapevolezza di essere una Comunità, che può prendersi cura insieme dei beni comuni dell’isola e con molte probabilità di successo, se gli isolani sapranno uscire dall’apatia, dal cinismo e dalla disperazione che caratterizza molte comunità in crisi iniziando a credere nelle proprie potenzialità e assumendosi in prima persona la responsabilità delle loro prospettive future, come suggerisce Rajan.